Il tocco di braccio di Pavlovic in Milan-Lazio non è stato soltanto l’episodio che ha incendiato la tredicesima giornata di Serie A. È stato, soprattutto, la fotografia di un cortocircuito che sembra ormai strutturale: un sistema arbitrale che vive tra due mondi, il campo e la sala video, incapaci di dialogare davvero. Sempre più spesso si ha la sensazione di assistere a due partite parallele: una arbitrata in tempo reale, l’altra scandagliata frame per frame da chi osserva dietro lo schermo. Due linguaggi diversi, due sensibilità diverse, due interpretazioni che raramente coincidono.

Il paradosso dell’episodio Pavlovic
Nel caso di San Siro è accaduto qualcosa di ancora più emblematico. Chiamato al monitor da Di Paolo, l’arbitro Collu ha scelto di mantenere la propria linea, ma nel tentativo di non smentire del tutto il collega ha finito per vedere un fallo inesistente tra Pavlovic e Marusic. Ha sbagliato due volte. Prima lasciandosi condizionare da un richiamo che non doveva arrivare. Poi avallando una lettura che non trovava riscontro nelle immagini. È qui che il meccanismo si inceppa: quando la tecnologia non diventa supporto, ma peso psicologico.
Sudditanza da VAR: la vera crepa del sistema
La sudditanza arbitrale non è più solo quella, antica, nei confronti dei grandi club. È quella verso i monitor. Molti direttori di gara, pur avendo visto bene dal vivo, finiscono per sentirsi in dovere di riconsiderare la propria decisione solo perché il VAR li richiama. Non per un errore evidente, ma per una percezione aumentata, spesso ingannevole, generata da replay rallentati, zoom e angolazioni artificiali. Il risultato è una moviola in campo non dichiarata, proprio ciò che i vertici arbitrali avevano sempre giurato di evitare.
Una tecnologia utile, ma usata nel modo sbagliato
Il problema non è il VAR in sé. È come viene applicato. Inseguire ossessivamente il dettaglio, anche quando il regolamento parla chiaro, alimenta confusione. E non cancella gli errori: li moltiplica, perché trasferisce la discrezionalità dall’arbitro al video-arbitro, o peggio ancora, la divide tra i due. E allora, mentre gli stadi esplodono di proteste e gli addetti ai lavori litigano sui social, lo strumento che doveva portare chiarezza finisce per creare una nebbia ancora più fitta.
C’è una via d’uscita? Sì, e non è fantascienza
Il suggerimento di Maurizio Sarri – sistemi VAR lontani dalle panchine per ridurre la pressione ambientale – è solo un tassello. La novità che potrebbe davvero cambiare le cose è già in fase di sperimentazione: il Football Video Support, applicato in alcune competizioni FIFA, in Serie C e nella Serie A femminile. Un modello più snello, più razionale, con due idee centrali:
Ridurre il campo d’intervento
Il VAR verifica automaticamente ogni goal, ma interviene solo per errori chiari e oggettivi.
Concedere alle squadre chiamate limitate, come nel tennis o nel football americano
Due o tre “challenge” a partita per chiedere la revisione di un episodio. Se la squadra sbaglia valutazione, perde la chiamata. Se ha ragione, la conserva. Una soluzione che ridurrebbe di molto il clima tossico attorno alla sala video e restituirebbe al campo la centralità che gli spetta.
Tra tecnologia e umanità: serve equilibrio
Non possiamo tornare al calcio senza supporti, non nel 2025. Ma non possiamo nemmeno costruire un mondo sterilizzato, dove ogni decisione viene processata al microscopio, togliendo agli arbitri la possibilità di valutare il contesto, la velocità, il contatto reale tra i giocatori. Il calcio vive della sua parte umana. Senza quella, perderebbe la sua essenza. Il tempo per correggere la rotta c’è, ma servirà coraggio. Prima che il VAR, nato per aiutare, finisca per diventare il principale nemico della credibilità del gioco.

