La 17ª giornata di Serie A si è chiusa come troppe altre negli ultimi anni: con più domande che risposte. E soprattutto con una sensazione ormai familiare, quasi logorante. Non stupisce più l’errore. Stupisce il rumore che resta dopo. Udinese-Lazio e Roma-Genoa non sono state semplici partite controverse. Sono diventate, ancora una volta, il pretesto per rimettere sotto accusa l’intero sistema arbitrale. In Friuli, un fallo di mano di Keinan Davis non sanzionato ha acceso la miccia. All’Olimpico, nel giorno emotivamente carico del ritorno da avversario di Daniele De Rossi, le parole post gara hanno allargato la crepa, puntando il dito sull’utilizzo del VAR. Non episodi isolati. Ma sintomi.
Quando le società parlano con i video
La Lazio ha scelto una strada ormai sempre più frequente: il video. Una presa di posizione formale, pubblica, che cristallizza un episodio e lo consegna al giudizio collettivo. È un atto politico, prima ancora che sportivo. Perché nel calcio moderno il silenzio è interpretato come resa. A quel punto, il dibattito non poteva che approdare a Open VAR. E lì, al centro della scena, è comparso Gianluca Rocchi, designatore arbitrale. Non per spiegare una decisione tecnica. Ma per difendere un principio.
Le parole che pesano più dell’episodio
Rocchi non ha scelto la via morbida. Ha alzato il livello dello scontro, consapevolmente. «Se si mette in dubbio la nostra buona fede, io domani mattina lascio». Una frase che non nasce dall’episodio in sé, ma dal clima. Dalla sensazione, sempre più diffusa, che l’arbitro non sia più giudicato per ciò che fa, ma per ciò che si sospetta. Il messaggio è chiaro: l’errore è umano, la malafede no. E su questo terreno Rocchi non intende trattare. Porta gli audio, si espone, accetta il confronto tecnico. Ma chiude la porta a qualsiasi lettura morale distorta. È una linea netta. Necessaria, forse. Ma non risolutiva.
Il vero problema non è l’errore
Chi continua a ridurre tutto a “errori arbitrali” guarda solo la superficie. Il problema strutturale è un altro: il VAR doveva togliere ambiguità, e invece ha moltiplicato interpretazioni. Doveva raffreddare le polemiche, e le ha rese più sofisticate, più documentate, più difficili da spegnere. Il tifoso non accetta più l’errore perché sa, o crede di sapere, che esiste uno strumento per evitarlo. Quando quello strumento non interviene, la frustrazione raddoppia. Non perché si pensa a un complotto, ma perché si percepisce incoerenza. Ed è qui che il sistema vacilla.
Tra trasparenza e comunicazione mancata
Open VAR è un passo avanti. Ma non basta. Mostrare gli audio non significa automaticamente farsi capire. La distanza tra linguaggio arbitrale e percezione pubblica resta enorme. E in quello spazio si infilano rabbia, sospetto, narrazioni tossiche. Rocchi difende giustamente la buona fede della classe arbitrale. Ma la Serie A, nel suo complesso, non ha ancora trovato un modo efficace per spiegare perché certe decisioni vengono prese e perché altre no, in modo coerente, replicabile, comprensibile.
Una conclusione scomoda
Il VAR non è il nemico. Ma non è nemmeno il salvatore che ci avevano promesso. È uno strumento potente, gestito da uomini sotto pressione, in un contesto che non ammette più zone grigie. Mettere in dubbio la buona fede degli arbitri è una scorciatoia pericolosa. Ma fingere che il problema sia solo comunicativo è altrettanto miope.
La verità è che il calcio italiano è arrivato a un bivio: o accetta l’errore come parte del gioco, anche nell’era del VAR, oppure costruisce un sistema di spiegazione e responsabilità all’altezza della tecnologia che ha scelto di adottare. Perché oggi il punto non è se Rocchi resti o se qualcuno sbagli. Il punto è se il sistema, così com’è, riesce ancora a farsi credere.

